di Antonio Saccà
Mi sono recato negli Stati Uniti non frequentemente, ma abbastanza per averne qualche impressione non fugace. La prima visita la situerei fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta e ne rimasi esterrefatto. New York mi travolse, era come una luce accesa conficcata negli occhi. Avvertendo che la città pulsava le ventiquattrore, non riuscivo a dormire, mi pareva di dormire mentre gli altri vivevano, di sprecare tempo, sicché, ad esempio, acquistavo camicie alle quattro del mattino, evento in Italia e in Europa inconcepibile. Ma fui sconvolto letteralmente dal cambiamento che avveniva tra la notte e il giorno; di giorno prevalevano i bianchi, di notte pressoché non si vedeva un bianco e se sbirciavo nei locali, scorgevo un ammasso di neri, così anche nelle strade. La Polizia, scorgendoti straniero, ti dissuadeva da certe vie. Non dico dei grattacieli, all’inizio è come se non esistessero, perché lo sguardo non si dirige in alto, ma se alzi gli occhi ti sembra che il firmamento caschi addosso.
E’ un sovrastare immane che ti annienta e ad un tempo ti potenzia. Così come avviene salendo in ascensore a velocità supersonica e leggere trenta, cinquanta, settanta piani con la testa svuotata e mezzo rimbambita, al punto che quando arrivi alla tua stanza barcolli. Quando tornai in Italia, dormii quarantottore e non mi adattai alla piccolezza del nostro Paese. Per capire gli Stati Uniti bisogna vivere in mezzo ai grattacieli e specialmente osservare da grattacieli elevatissimi grattacieli circostanti, ciascuno di solito con la scritta di una marca che cerca di primeggiare sulle altre. Vi è tanta luce che non si scorgono le strade. Ma, incredibile, svoltate certe ‘avenue’ ci si può imbattere in una miseria così radicale che bisognava recarsi in India, in Sud America, in Africa, dico nel passato, per vederne di uguali. Tornai negli Stati Uniti, vi attraversai dall’Atlantico al Pacifico, visitai piccole città serene, limpide, intarsiate nella natura, altre città all’europea come San Francisco o città polifemiche come Chicago e Los Angeles, quest’ultima brevissimamente e poi la distesa, rigogliosa di verde, geometrica Washington, con la sacralità di monumenti celebrativi di taluni Presidenti, Washington, Jefferson, Lincoln.
Ma pure a Washington ebbi l’orrenda vista della povertà, bastava svoltare qualche centinaio di metri dalle vie orgogliosissime e vi era la povertà più nera, soprattutto dei neri. Una povertà assoluta, schiacciante, di persone che non avevano spiraglio di salvezza e pendolavano smarrite con lo sguardo acciecato, cenciosi. Ovviamente conobbi anche la ‘natura’ degli stati Uniti, l’abissale Grand Canyon, il roseo Bryce Canyon, le cascate del Niagara, Yosemite Park, Yellowstone.
L’ultima visita negli Stati Uniti la compii in una cittadina prossima a New York, Stafford, gradevole, bella, ariosa, come quasi tutte le piccole città statunitensi. Ma qui ebbi una sorpresa clamorosissima: nessuna o pressoché nessuna merce acquistabile era nazionale, o cinese o indiana, con qualche tocco di altri Paesi. Bene. Quando mi occupai della globalizzazione, sulla Rivista di Studi Politici Internazionali, la più antica rivista italiana ancora esistente e diffusa mondialmente, ritenni appropriato fare questa distinzione, che poi risultava il titolo del saggio “Globalizzazione. Contro-globalizzazione. Contro-globalizzazione”. La globalizzazione nasce dalla convinzione del Capitalismo occidentale di conquistare il mondo.

La contro-globalizzazione nasce dalla straordinaria abilità di alcuni Paesi, Cina e India specialmente, di favorire la globalizzazione, ma divenendo luoghi di produzione e di esportazione. La Cina fu geniale, accettò i capitali, li fece arricchire, ma nello stesso tempo si arricchì, accumulò, investì e divenne il colosso odierno. Visitai la Cina nel 1983 e mi inorridì.
Ho ancora nella mente il luridume, i piatti sciacquati con l’acqua sporca, gli scarafaggi negli alberghi a cinque stelle. Tornai in Cina ai primi del XXl secolo, rimasi folgorato, Pechino e Shangai pareggiano o sovrastano New York e Chicago. E’ un’atmosfera laboriosa, un pullulare di imprese, un gigantismo stradale e dei grattacieli… Quale è stato il segreto di questo mutamento? Di certo la convinzione di Deng Xiaoping di innestare il Capitalismo nel Comunismo politico. Inoltre, l’illusione del Capitalismo occidentale di poter controllare la Cina, ossia l’ignoranza assoluta sulla identità cinese, che è un’identità imperialistica e imperiale come nessun’altra. Ma l’errore o in ogni caso la scelta decisiva fu di concedere alla Cina la qualifica di Nazione favorita nei commerci, vale a dire: la Cina esportava a tassi minimi, mentre importava a tassi enormi, sicché la Cina esportava, ma non importava. Questo ha mutato gli equilibri internazionali.

Tutto ciò che sta accadendo oggi deriva dal fenomeno ora descritto, che io ho definito ‘contro-globalizzazione’, ossia la rivalsa dei Paesi globalizzati o che dovevano esserlo. Al dunque, fu la Cina a globalizzare e non ad essere globalizzata. Che cos’è o che cosa è stata la ‘contro-contro- globalizzazione’
Nel mio saggio la definii come il tentativo di Paesi occidentali o di gruppi di opinione di reagire alla contro- globalizzazione, insomma di non farsi globalizzare dalla Cina e da parte di coloro che anche in Occidente erano diventati ‘amici’ della Cina. Perché, come già ho spesso scritto, esiste una globalizzazione occidentale e una globalizzazione cinese, che talvolta convergono talvolta si scontrano.
Il sovranismo, l’identità nazionale, certe forme protettive fanno parte del tentativo di limitare o impedire gli effetti della globalizzazione, che è universalistica, anti- identitaria, antinazionale e anti- individuale (su questo aspetto ho scritto un libro, “Il tramonto dell’alba e l’eclissi dell’Io” e un saggio sempre per la Rivista di Studi Politici Internazionali).
Quando giunse al potere negli Stati Uniti la Presidenza repubblicana, venne scoperto il fenomeno di cui ho detto, che la Cina si ingrossava esportando molto e importando poco favorita dai dazi, che le imprese si spostavano investendo in Cina o all’estero, che il disavanzo commerciale era enorme, che l’afflusso ispanico era incontrollato… Il tentativo del Presidente repubblicano fu quello di equiparare i dazi con la Cina, recuperare le imprese che investivano all’estero abbassando la tassazione nazionale, limitare l’afflusso degli ispanici. Il progetto cozzava con gli interessi di quanti investivano in Cina o avevano frapporti commerciali con la Cina.
Da ciò l’avversione nei confronti del Presidente repubblicano. D’altro canto, il Presidente repubblicano attaccava l’Unione Europea e ne voleva lo smembramento. Il gioco era molto problematico perché urtava chiaramente contro la globalizzazione e contro la contro-globalizzazione, ossia la Cina. Sarebbe riuscito, se non fosse accaduto l’evento virale, perché l’economia statunitense veleggiava. Siamo o no convinti che il Virus è una manovra per paralizzare la protesta contro la globalizzazione cinese e non cinese?
Vi sono alcuni dati decisivi: il Virus nasce in Cina, nasce da laboratori cinesi di Wuhan, è impensabile che venga dai mercati, in quanto risultano modificazioni umane, è stato diffuso nel periodo delle festività quando i cinesi spaziavano nel mondo, la Cina impedisce ogni indagine nei propri laboratori, la Cina risulta il paese più indenne dal Virus, il Virus ha condizionato radicalmente le elezioni americane, ossia la sconfitta dei Repubblicani, non dico il comportamento della Organizzazione Mondiale della Sanità e dei magnati della comunicazione statunitense.

Come teorizzato da Brzezinskij in “Between Two Ages”, ormai il dominio sui popoli dovrebbe avvenire non militarmente o per via colonialista, ma con l’impiego capillare e personalizzato sugli individui da parte dei mezzi di comunicazione. E’ ciò che è accaduto negli Stati Uniti e che sta avvenendo da noi. Il Virus esiste, ma l’ingigantimento mediatico del Virus sovrasta gli effetti reali del Virus, impaurendo, paralizzando e dirigendo l’opinione pubblica contro uno Stato o un altro Stato e soprattutto occultando il dominio dei grandi gruppi e le trasformazioni che annientano, l’ho detto e lo ripeto, il ceto medio e il proletariato, deculturalizzando le società.
A questo punto o crediamo che la globalizzazione sia inevitabile e ogni ostacolo è velleitario, o addirittura che porti bene, o riteniamo questa globalizzazione una catastrofe che non ha eguali nella Storia. Personalmente, sono di quest’ultima opinione e sto cercando eventuali alternative, difficilissime. Mi fermo, ma capisco chi si ribella. Però oso aggiungere qualcosa. L’espansione mondiale dei rapporti economici è, insisto a dire, inevitabile, se travolge il proletariato e la piccola e media impresa è una catastrofe. Prima di assorbire la disoccupazione e i fallimenti, occorreranno anni e anni. Posto che avvenga. Attenzione: la crisi esisteva già, il Virus ha cambiato le carte in tavola facendo credere che la crisi e i cambiamenti economici sono dovuti al Virus. Il Virus ha soltanto coperto un mutamento che accadeva. Questo è il vero dramma. Perché se la crisi fosse dovuta al Virus, passato il Virus passerebbe la crisi. Ma non sarà così. Una globalizzazione sul piano paritario, o meglio una internazionalizzazione, sarebbe non solo auspicabile, ma ormai indispensabile, data la potenza produttiva.
Epperò la globalizzazione non è la mera internazionalizzazione, è il dominio di pochi gruppi. Il che esige una risposta. Saranno i popoli capaci di non regredire alla povertà e di suscitare forze idonee a contrastare l’impoverimento? Io teorizzo l’impresa dei lavoratori. Se vi sono altre ipotesi, ben vengano.