Se la “Città Eterna” si chiama Maia e non Roma fu per questo segreto che Augusto esiliò Ovidio?

di Arnaldo Gioacchini

 

L’argomento è piuttosto delicato, e, per certi versi, piuttosto “scivoloso”, una cosa però è certa che chi scrive affrontandolo (con tutta l’attenzione storica del caso) non rischia l’esilio come sembra accadde per il grande poeta della latinità Ovidio (Publio Ovidio Nasone) che il primo imperatore romano l’ “Ottimo” “Massimo” Augusto (Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto) relegò a Tomis nel lontano Mar Nero per aver (forse) fatto trapelare un antico radicato segreto, cioè che Roma “Città Eterna” non si chiamava così ma bensì Maia! Un argomento questo il quale, più o meno sottotraccia, riaffiora periodicamente, da lungo tempo, ma che recentemente è stato riportato di grande attualità da due bravissimi studiosi e ricercatori, l’ingegnere nucleare Felice Vinci ( autore anche del libro “Omero nel Baltico”) ed il professore di liceo Arduino Maiuri i quali, sulla prestigiosa rivista “Appunti Romani di Filologia” pubblicazione annuale di “Studi e Comunicazione di Filologia, Linguistica e Letteratura”( greca e romana), sostengono, adducendo congrue spiegazioni, che il nome segreto di Roma fosse Maia. Lo studio di Vinci e Maiuri si titola “Mai dire Maia” ed è stato pubblicato coincidentemente alla ricorrenza di duemila anni dalla scomparsa del succitato bravissimo poeta “abruzzese” (nato a Sulmona nel 43 a.C. e morto a Tomis nel 17 p. C.). A questo punto, dopo questo breve incipit introduttivo, cerchiamo, con ciò che attualmente è noto, di comprendere come Maia e non Roma potrebbe essere il nome della “Città Eterna”. Ma prima di tutto vediamo da quando Roma viene nomata la “Città Eterna”. La risposta viene da quanto scrisse un poeta latino, poco noto, Albio Tibullo ( n. 55 a.C. m.18 a.C. e che alla sua epoca era conosciuto, più che altro, come autore di poemi erotici), il quale, nel secondo libro delle Elegie, immaginando un periodo piuttosto remoto scrisse “Romulus Aeternae nondum formaverat Urbis moenia” che tradotto risulta come “Né ancora aveva Romolo innalzato le mura dell'Eterna Urbe” ( dal che “Città Eterna”). Indagando le motivazioni del misterioso esilio comminato ad Ovidio dall’ imperatore Augusto, i due autori si imbattono in una serie di affermazioni sibilline di Ovidio nella sua opera Fasti, interrotta proprio dalla punizione dell’esilio, che rinviano proprio a Maia. L’opera doveva comprendere in tutto dodici libri, uno per ciascun mese dell’anno; un poema finalizzato a rivisitare le feste, i riti e le consuetudini della tradizione romana, bruscamente interrotto al sesto libro, nell’8 d.C., dall’esilio a Tomis, sulla costa occidentale del mar Nero. E andiamo al dunque: “All’ inizio del quinto libro la musa Calliope si sofferma sugli antefatti della fondazione di Roma e chiama in causa la costellazione delle Pleiadi caso unico in tutta la letteratura latina sia precedente sia successiva e certo non spiegabile con un’invenzione di Ovidio, rigorosamente rispettoso della tradizione. L’autore aveva dunque scritto qualcosa che non doveva essere scritto?  I sacerdoti romani, prima di assediare una città, ne invocavano il nume tutelare, promettendo che nell’Urbis avrebbe goduto di un culto uguale, se non maggiore, qualora avesse assistito i Romani nell’assedio. Dunque, per evitare che i nemici facessero lo stesso, il nome della divinità protettrice (che spesso si identificava con quello della città medesima, come nel caso di Atena – Atene)  doveva essere coperto dal più assoluto riserbo”
questo si legge nello studio degli ottimi Vinci e Maiuri. Era vitale insomma che la divinità tutelare di Roma venisse tenuta segreta per non concedere vantaggi ai tanti nemici dell’impero. Il mito della fondazione di Roma, secondo gli autori dello studio, rivela sorprendenti legami con le Pleiadi, l’ammasso stellare a forma di carro che è composto da sette stelle racchiuse in un’area
del cielo che, vista dalla Terra, ha la stessa grandezza del disco lunare.  Riguardo al legame delle sette Pleiadi con il luogo dove sarebbe sorta Roma, sovrapponendo pianta della città e volta celeste si scopre che i Sette Colli si approssimano molto, nella collocazione, alle sette Pleiadi e che il luogo di “inizio” della città, il colle Palatino dove Romolo tracciò con l’aratro i confini della città quadrata, coincide appunto con Maia. Il tutto sottolineato dal tracciato delle mura serviane. Fra l’altro, vi è da dire che Maia è una figura della  mitologia romana  ed in particolare trattasi di un'antica  Dea  della fecondità e del risveglio della natura in  primavera . Maia è madre del Dio  Ermes  e figlia di  Atlante  e  Pleione , quindi fa parte delle  Pleiadi . Rilevano sempre Vinci e Maiuri: “Sarebbe a questo punto da chiedersi se, nel noto racconto della fondazione, dietro il numero degli uccelli avvistati da Remo appostato sull’Aventino e da Romolo sul Palatino, rispettivamente sei e dodici, non si nascondesse proprio una sottile allusione al numero delle Pleiadi effettivamente visibili“. Per quanto concerne il perché del suo esilio da parte di Augusto estremamente interessante è ciò che scrive (aggiungendo però segreto a segreto) lo stesso Ovidio nei  Tristia nell' 8 d.C. ( è già in esilio a Tomis): “ Perdiderint cum me duo crimina,carme et error alterius facti culpa silenda mihi”. ( “Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore di questo debbo tacere quale è stata la colpa” ) Il carme ove si dice che Roma si chiama Maia e l’error quello che aveva fatto il poeta intrecciando una illecita relazione con Giulia Maggiore la figlia di Augusto? Ma poi
furono veramente questi i due elementi concausali che generarono un triste esilio ai confini dell’Impero per uno dei maggiori poeti della latinità? Con certezza non lo sapremo mai.

 

Author: Cris

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