di Arnaldo Gioacchini – Membro del Comitato Tecnico Scientifico dell’Associazione Beni italiani Patrimonio Mondiale
In questi giorni di forzosa, anzi, purtroppo, forzosissima stasi, ognuno occupa il tempo disponibile, che non è poco, occupandosi in ciò che più gli aggrada.Nello specifico di chi scrive si tratta della lettura dei classici latini e greci, due lingue frequentate, più che abbondantemente e con un certo piacere, già ai tempi delle medie e del liceo classico la prima, e del liceo, sempre classico, la seconda. Latino e Greco che nel sottoscritto hanno lasciato molto il segno arrivando ancora oggi al punto di leggerle e tradurle senza grandi difficoltà trattandosi, fra l’altro, almeno per me, di un dignitoso esercizio mentale per cui, con un minimo di temporalità storica e con gran piacere, ho riletto nell’ordine l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide riandando a ricordare fatti, personaggi e cose che, per certi versi, mi piacquero molto, per non dire di alcune situazioni che mi affascinarono in maniera piuttosto importante; fra cui, in particolare,tutto quello riguardante l’assedio di Troia,”; un assedio “ liberato”, quando lo si studia a fondo, da tutta quella fronzuta agiografia costruitagli intorno vuoi in molti testi ma anche, a volte ma non sempre, in un discutibile ambito cinematografico. Come è noto lo storico“perno eccentrico” di quanto sopra fu l’espugnazione, vera e propria, di Ilio che, per secoli e secoli, ci è stata tramandata come avvenuta tramite l’inganno del famoso cavallo costruito da Epeo e riempito dalla furbizia di Ulisse. Questa cosa, data sempre quasi come un assunto, almeno per quanto mi concerne, ha piuttosto vacillato quando, pochi anni fa (quattro per l’esattezza) mi imbattei in un articolo, molto particolare e molto documentato, scritto su una delle mie riviste tecnico – divulgative preferite, intendo parlare, nello specifico, di “Archeologia Viva”. Un articolo il quale addirittura diceva che l’inganno perpetrato dagli Achei non fu effettuato tramite un cavallo ma bensì tramite un altro, non trascurabile anche questo per la sua grandezza, manufatto, in questo caso marino e non terrestre. La cosa mi colpì e mi interessò talmente che approfondii ulteriormente e pervicacemente le ricerche in proposito fino al punto di scriverci su, sopratutto come giornalista specializzato nella Cultura e membro di un Gruppo Archeologico, un mio documentato articolo che a seguire, pari pari come lo scrissi, mi permetto di sottoporre all’attenzione degli affezionati Lettori del nostro, sempre più diffuso e seguito, portale anche a livello internazionale grazie anche, volendo, alla traduzione simultanea in tutte le lingue.
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A volte, non sempre e non spesso, vi sono letture che lasciano perplessi e sopratutto sorpresi se non altro perché quello che si viene a leggere ribalta completamente ciò che sappiamo, scaturito sempre dalle nostre letture o dalle nostre conoscenze acquisite magari tramite gli studi effettuati su quei testi classici ritenuti, almeno per la storia antica, molto attendibili soprattutto perché studiati e tramandati per secoli fino ai nostri giorni come una fonte indiscutibile di momenti, fatti e personaggi protagonisti di res gestae mitiche ed affascinanti. In questo caso, per chi scrive, dopo aver letto e riletto, sul numero 178 di luglio/agosto 2016 di “Archeologia Viva” (una gran bella pubblicazione editata da Giunti e arrivata al XXXV anno di vita – 35 anni non sono affatto pochi per questo tipo di riviste specializzate – n.d.r.) alle pagine 72, 73, 74, 75 e 76 un interessantissimo articolo dal titolo: “La guerra di Troia fu vinta da un cavallo o da una … nave?” dell’archeologo navale e subacqueo l’italiano Francesco Tiboni, ricercatore dell’Università di Aix- en – Provence e Marsiglia, ha vacillato fortemente su quella che, universalmente da più di 2.000 anni, è data come una certezza assoluta, cioè che Troia fosse stata espugnata tramite lo stratagemma del famoso cavallo. Per inciso la sua “rivoluzionaria” asserzione il bresciano prof. Tiboni l’ha anche ribadita, se possibile, in maniera ancora più scientifica e dettagliata pure nell’edizione estiva di “Archaeologia maritima mediterranea. An International Journal of Nautical Archeology”. Forte delle sue approfondite cognizioni di archeologo navale e subacqueo Tiboni pone alla base della sua “dirompente” e “coraggiosa” affermazione (soprattutto perché il Cavallo di Troia gode ormai da secoli e secoli di una consolidatissima internazionalità fino addirittura ad entrare nel moderno uso informatico con il termine di trojan o trojan horse – Cavallo di Troia- che, come è noto, è una vera e propria dirompente trappola nascosta all’interno di un programma apparentemente innocuo), il fatto che alla base del tutto vi è stato, ad un certo punto, un errore di traduzione! Ovviamente Tiboni, da studioso e ricercatore di rango quale è, supporta la sua notevolissima affermazione con tutta un’ampia documentazione storica e storiografica che a seguire cercheremo di riassumere. Ma partiamo dall’inizio cioè da quando al giovane (39 anni) archeologo italiano si è accesa la “scintilla” per iniziare la sua più che impegnativa ricerca durata ben due anni il che è avvenuto (come afferma lo stesso Tiboni) mentre stava leggendo un testo dello scrittore greco Pausania (II secolo p.C.) e si imbatte nella frase: “Che quello realizzato da Epeo fosse un marchingegno per abbattere le mura e non un cavallo, lo sa bene chiunque non voglia attribuire ai Frigi un’assoluta dabbenaggine. Tuttavia, la leggenda ci dice che è un cavallo”. A questo punto all’archeologo navale Tiboni, che conosce a memoria tutta la tipologia delle navi antiche, il forte dubbio si è già insinuato nella mente e parallelamente il suo pensiero va subito al tipo di nave assiro-fenicia chiamata hippos avente la prua a forma di cavallo! Per inciso già nel XVII secolo alcuni studiosi avevano formulato l’ipotesi che il Cavallo di Troia non fosse tale ma bensì una nave sacra fermandosi però a ciò non avendo indicato affatto di quale tipo di nave potesse trattarsi. Secondo Tiboni l’equivoco traduttivo dall’Iliade di Omero che trasformò una ben definita nave ( hippos) con la prua a forma di testa di cavallo in un cavallo avvenne intorno al VII secolo a.C., ma soprattutto fu successivamente Virgilio che, ben 700 anni dopo in piena latinità, scrisse ampiamente che per quanto concerne l’inganno che permise di espugnare la ben munita Ilio dalle possenti mura si era trattato di un equus ligneo costruito all’uopo. Vi è da dire che gli Achei assediarono Troia (1.250 a.C. c.a.) con un esercito poderoso ivi portato da ben 1.178 navi! Navi che Omero ben cita nel Libro Secondo dell’Iliade (Il Sogno ed il Catalogo delle navi) specificandone addirittura l’appartenenza ai singoli re. La cosa, molto interessante da sapere, è, per chi non ha letto e tradotto dal greco l’Iliade (con grande piacere, ma inizialmente per “obblighi scolastici” come chi scrive) che essa non parla della caduta di Troia fermandosi nella narrazione al libro XXIV (Il riscatto di Ettore) non raccontando affatto l’espugnazione della città e dell’inganno con cui fu presa, mentre lo stesso Omero ne fa solo un (breve) accenno nell’Odissea. Cosa invece trattata per esteso da autori non certi nell’ Iliou persis – la caduta di Troia- (facente parte del Ciclo Troiano), Iliou persis che però è andata perduta e comunque successiva all’Iliade – n.d.r.). Tornando a quanto asserito da Tiboni conviene seguire le sue parole: “Una nave che cadde in disuso nei secoli successivi e chi tradusse in seguito non ne era proprio a conoscenza dell’esistenza. Ma Omero, nei suoi versi, è invece preciso nel suo linguaggio marinaresco” ed ancora: “ Dal punto di vista lessicale, appare evidente che l’apparizione del cavallo risulta legata a un errore di traduzione, un’imprecisione nella scelta del termine corrispondente che, modificando di fatto il contenuto della parola originaria, ha portato alla distorsione di un’intera vicenda”. Ed il noto archeologo navale precisa ulteriormente il suo concetto frutto di un più che approfondito studio: “Una nave, piuttosto che di un cavallo, perché l’Hippos va identificato con un vascello e non con un quadrupede. Ma come e quando la nave è diventata un cavallo? Intorno al VII secolo a. C. è nato l’equivoco, poi ingenerato successivamente anche da Virgilio che ne fu inconsapevole trasmettitore rispetto all’originale di Omero. Se, infatti, esaminiamo i testi omerici, reintroducendo il significato originale di nave – certamente noto ai contemporanei – non solo non si modifica in alcun modo il significato della vicenda, ma l’inganno tende ad acquisire una dimensione meno surreale. È di certo più verosimile che una imbarcazione di grandi dimensioni possa celare al proprio interno dei soldati, e che loro possano uscire calandosi rapidamente da portelli chiaramente visibili sullo scafo e per nulla sospetti agli occhi di chi osserva. E appare più plausibile anche ipotizzare che una grande nave, di un tipo noto per essere solitamente utilizzato per pagare tributi, possa essere non solo interpretata come un dono e un segno di resa, ma anche come un eventuale voto divino. È possibile che, nel corso dei secoli, essendo caduto in disuso il termine navale, l’identificazione dell’Hippos con uno scafo non fosse più automatica”. E quanto affermato dal Tiboni si fa sempre più interessante ed affascinante: “Se consideriamo l’iconografia, notiamo che tra le pochissime figurazioni del cavallo (venticinque in tutta la storia dell’arte antica), le prime si datano al VII secolo a.C., periodo cui risalgono le opere post-omeriche prese a riferimento da Virgilio. Dunque, è più che possibile che l’equivoco millenario della traduzione dell’Hippos omerico si possa collocare in questo momento E che utilizzando il termine latino “equus” (che significa “cavallo”), forse a causa della tradizione post-omerica, come farà anche il filosofo bizantino Proclo (412-485 d.C.) nella Crestomazia, riportando testi di Lesche di Mitilene (VIII-VII sec. a.C.) e di Arctino di Mileto (VIII sec. a.C.). Ed il giovane ma già molto noto (con questo suo “dirompente” studio lo diverrà sempre di più – n.d.r.) archeologo navale e subacqueo italiano conclude il suo pensiero scientifico dicendo: “La sottovalutazione incolpevole – e ante litteram – dell’archeologia navale, intesa come capacità di analisi delle diverse fonti a disposizione degli studiosi finalizzata al riconoscimento e studio dei modelli di imbarcazione antichi, potrebbe quindi aver determinato questo equivoco plurisecolare, che, oggi, proprio l’archeologia navale può finalmente sanare”. Ciò che asserisce Tiboni nel suo articolo (molto ampio e dettagliato impossibile per motivi di spazio da riprodurre per esteso) ha generato in chi scrive una serie di riflessioni: Athena era la dea protettrice dei Greci e dei maestri d’ascia – i costruttori di navi, (imbarcazioni che all’epoca erano costruite con il fasciame legato con corde di fibra vegetale e con il tutto calafatato – dal greco kalafateo) e sicuramente i troiani sapevano ciò e quindi un dono di una nave sacra lasciata in secco in omaggio alla dea per ingraziarsene il (finto) ritorno a casa poteva possedere una forte credibilità religiosa e scaramantica e poi, per altro, dalle alte mura di Ilio si poteva vedere benissimo la costruzione ex novo di un cavallo ligneo e di quanto veniva apprestato intorno a lui, cosa invece che non destava sospetti con una nave tirata in secco insieme ad oltre mille di esse. Per non dire della facilità di alaggio di una nave, con sotto lo scafo traverse lignee ingrassate all’uopo per facilitarne lo scorrimento e con il traino effettuato da persone o ancor meglio da quadrupedi con lunghe funi poste ai due lati; un sistema a tutt’oggi ancora in uso in molte parti del mondo per imbarcazioni piccole e grandi. Dimenticavo, su questa sua scoperta Tiboni sta scrivendo un libro che è atteso con grande interesse. L’argomento non può essere certo accantonato magari dileggiandolo con un dispregiativo (in greco) “bàlle eis kòrakas” che in italiano si potrebbe tradurre come un bel “vai a quel paese” ma un pò più volgare. Comunque anche Omero ben conosceva le navi con la prua a forma di testa di cavallo tanto è vero che se uno si va a leggere l’Odissea nel IV Libro ( A Lacèdemone) c’è scritto “Araldo, perché il mio figliuolo è partito? Non aveva bisogno di salire su navi veloci in cammino, che sono i cavalli del mare per gli uomini, molto mare traversano. Forse perché nemmeno il suo nome resti fra gli uomini ?”. Guarda caso, nel testo originale in greco, Omero i cavalli del mare li cita come ippoi. “Cavalli del mare” che, in questo caso, vanno e tornano, sulla loro rotta solcando i flutti. Infatti, come è più o meno noto, il giovane Telemaco tornò ad Itaca e poi, finalmente, incontrò quel grande girovago dei mari che era il suo leggendario padre, il mitico, intelligentemente furbo, Odisseo figlio di Laerte.