Editing, Copywriting Cristian Arni
Ecco, stiamo sfogliando un romanzo, fuori il sole e il Covid-19, noi leggiamo e, scriviamo quindi, leggiamo, non potrebbe essere altrimenti. Così ci viene in soccorso l’autore de “Il Professore, la morte e la ragazza” l’ autore è il Prof. Antonino Saccà, il libro è edito da Armando editore, credetemi, vale la pena leggerlo quindi se potete lo troverete in tutte le librerie o ordinarlo direttamente online, anche facendone espressa richiesta qui, a noi. Vi riportiamo nella fattispecie un capitolo, il xxxx, così come ci è stato indicato dall’ autore, chissà che non troviate qualche riferimento, qualche trait d’union con le…”circostanze date”, in attesa di giorni migliori, buona lettura.
tratto dal Romanzo “Il professore, la morte e la ragazza” autore Antonio Saccò, pp.365, 2019, 17.00 € Armando Ed. http://www.armandoeditore.it/
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Prima dell’alba, ogni notte, mi dovevo alzare, a letto da appena qualche ora, sostavo lungamente in bagno a tentare di svescicarmi l’urina che rimaneva inerte pesandomi e bruciandomi i condotti, io in piedi, a ragionare di tutto, senza dar fuori un getto, una stilla, e passava il tempo, più vuoto che mai, il quotidiano tributo al piscio, ciò che doveva essere consueto, addirittura involontario, mi incombeva. Mi trattenevo al buio, annullando me stesso e ciò che compivo, tentavo; e feci una scoperta, non me l’aspettavo, aprii la luce, credevo di aver bagnato il pavimento, ero riuscito a liquidificare, ed invece scoprii i peli del cazzo, bianchi, nel guardare! Circostanze senili ne avevo anticipate, avvenissero o non avvenissero, ma il cazzo canuto, spelacchiato, anche, mi scorava. Non fosse stato il mio cazzo lo avrei ridicolizzato… Ma prendere in giro il proprio cazzo! I coglioni spenzolavano come bucce di fichidindia scartati, mi ero abituato, ma quella parrucchetta biancogrigia, negletta, il pelo di un cane dai molti anni… Mi ciondolavo pensoso cazzo e coglioni: quei pelacchi mi affliggevano l’intera situazione genitale. Che avrebbe sentenziato una donna a vedermeli? Non intendevo colorarli di nero, non mi ero scurito i capelli, figurarsi! La vecchiaia seguisse la sua strada. Anche al petto la medesima fioritura appassita. Radi peli, inappariscenti. Vecchiaia, dunque, dentro e fuori di me. Eppure, non mi sentivo vecchio. Mi vedevo vecchio, ma non mi sentivo vecchio. Addirittura non concepivo che fosse la vecchiaia. Vivere: lo volevo ancora. Tentare: non avevo rinunciato. Lottare: non mi consideravo finito. Rabbia: ne gonfiavo. L’amore: lo facevo. Dov’era la vecchiaia? Per quei peli senza motivo dovevo affliggermi? Rinserrai il coso, e non ne volli più sapere. Del resto, ormai, la questione non era la vecchiaia…
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Antigeni prostatici specifici, e di una esageratissima consistenza, il doppio, più che il doppio di quanti la natura me ne consentiva. Con quali compiti? Rendevano accertabile che la prostata dava in escandescenze, s’era gonfiata, si infiammava, e quegli antigeni segnavano… Che segnavano? Mi era cresciuta una prostata che sbatteva ai lati, incazzata, necessitava di un’abitazione di ampiezza maggiore o vi era qualche modificazione più canagliesca, cellule sbandate che agivano per conto loro non prendendo ordini e che avrebbero convinto l’intero patrimonio di tutte le altre mie cellule, le avrebbero corrotte, ubriacate e mi sarei scoperto, tardi per ostacolare la mia morte, un corpo invaso? Che io mi volessi male, la vita lo dimostrava, sempre a tentare di sbagliare o di macerare le buone occasioni, pure il corpo, forse, cercava di combattermi, gli dispiaceva la salute, e se la mente concepiva colpe, punizioni, voglia di rovina e senza dolore e difficoltà non mi consentiva piacere, chi sa, i polmoni, il fegato, la temibile prostata gareggiavano anch’essi: vuoi la gioia di vivere, scontala con la malattia! La condizione per lasciarmi in vita era ch’io fossi malato? La malattia mi avrebbe concesso il diritto di vivere in quanto pagavo quel gran bel dono? Chiacchiere a parte, quando infine dopo anni di quelle alzate mattutine colmai di piscio fresco, all’alba, la prima piscia, così mi avevano consigliato, una vaschetta, e la recai per giudicamela, lessi, alla consegna delle indagini, mi tremavano gli occhi, quello sproposito: che mi proliferavano antigeni prostatici specifici, e mi guardai in giro come uno che annega. Chiesi al primo che passava, nei corridoi dell’ospedale, inorridito che io stessi male e il mio prossimo al sicuro! Avrei voluto gorgogliare di salute. Invece! Senta, qualche conoscente informato nel giro della mia zona, antigeni prostatici specifici, che vogliono da me, chi sono? Mi guardavano come se io parlassi già da morto: cosa grave, e se non lo era poteva esserlo da un istante all’altro, perfino in quel momento in cui parlavo… Dovevo affrettarmi? Precipitarmi. Ecco quanto mi si aruspicava… E se avessero avuto ragione? Devo morire, lo so, ma così, in genere, non temere il domani, l’oggi, questo momento che la vita mi venga strappata di mano e io divenga una cosa da niente sopra un
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letto e, dopo, accantonata, sotterrata, proprio in modo che non sopravvanzi rimasuglio… Mi ossessionai a parlare della mia prostata, dirizzando ogni discussione perché non fosse trascurata la prostata in linea di principio, quindi la mia prostata soggettiva: disturbavo l’intero vicinato! L’inquilino laterale si alzava di notte, forse nelle stesse ore in cui io sostavo, e sullo stesso piano eravamo in due a invocare la goccia che ci avrebbe consentito di dormire. Un altro vicino, con il quale parlicchiavo: giungemmo, sulla prostata, addirittura all’intimità dei paragoni sui rispettivi malanni prostatici. Nominai gli Antigeni prostatici specifici. Sbiancò. Non sono un buon segno! Li conosceva. Dovevo preoccuparmi? Dovevo preoccuparmi! Chiesi la ragione. Mi spiegò quanto gli avevano spiegato, che questi Antigeni rivelano… Lo sapevo anch’io ciò che rivelano. Fu netto: gli Antigeni cambiano natura… Ingiallii. Se ne avvide. E mi accrebbe il terrore. Dopo anni e anni e anni di quello sforzo di fronte al cesso, è come una pietra sfregata che dà scintille, del resto la prostata si gonfia di suo, cresce, e muta faccia, ecco il punto disonesto, quel voltafaccia della prostata… Di sbalorditivo vi era che non mi precipitavo da un medico. Quando mi decisi a farmi allargare il buco del culo per consentire al medico con il dito inguainato, dopo avermi addolcito di cremine l’orifizio, la tangibilità della prostata, costui mi dichiarò che non riusciva a raggiungerla perché la prostata non soltanto si comportava da mia nemica ma era anche in posizione scorretta, inavvicinabile. Sì che me ne tornai a casa inconsapevole, irato e con un eccesso di brutti pensieri. Dovevo farmi conoscere con gli strumenti. E così avvenne, mentre le immagini venivano date a spettacolo avrei appreso se la Morte mi aveva consegnato il suo biglietto da visita. Del resto, soltanto chi è in vita può sapere di dover morire: da confortarmi.
“Dottore!”. Non mi guardò né mi rispose. Gli sfiorai il braccio. Allora mi guardò. Lo fermai con i miei occhi. Mi fissò anch’egli. “Solo una domanda, che avrà ascoltato mille volte da mille persone.” Attese quel che chiedevo, sapendolo. “Quanto tempo…”. “Da vivere?”. “Da
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vivere!”. Non rispose e chinò gli occhi. Sarebbe stata, dunque, una morte affrettata? “Non abbia timore di impressionarmi, ho pensato alla morte da quando penso. Che può dirmi, che ha saputo dalle immagini?”. Si tolse gli occhiali passandosi le dita a carezzarsi le sopracciglia. “Allora?”. “Ciascun malato ha la sua malattia”. “Dunque sono malato! E quale è la mia malattia?”. Aveva il dovere di rispondermi così come io avevo il diritto di sapere. Ripuliva le sue lenti con uno straccetto giallo e mi accennò di attendere abbassando il capo. Senza occhiali il suo volto era trasformato, le orbite infossate, annerite, lo sguardo con la stanchezza di chi non vuole più sforzarsi di vedere. Gli avrei lasciato il modo per inventarsi come rispondermi, forse, almeno in quei momenti, non mi considerava esclusivamente per quanto denaro potevo fornirgli. E tornai a me stesso, mi cercai. Volli sentire la mia ultima richiesta alla vita. Ecco: non morire subito! Almeno questo. Volevo, dovevo afferrare nitidamente se esisteva ancora in me qualcuno che esigeva qualcosa. ”Non voglio morire subito!”. Gridai. Il dottore ebbe un cenno di sorriso a smorfia… Sentivo, quindi capivo, mi capivo: non volevo vivere per prepararmi alla morte, non per questo, ma per concludere certe faccende. Avevo da mettere in ordine questo libro, e altri ancora, molti altri. Poi la Morte poteva anche raggiungermi. Mi dichiarò nuovamente che ciascuno ha la sua malattia e che doveva analizzare. Non insistetti. Intendevo uscire, restare solo. Quando fui alla porta, nello stringermi la mano che io stringevo, mi confidò che egli aveva il male che io temevo in me, e non sapeva quanto tempo gli rimaneva per tornare in quelle stanze ad incontrare persone nelle sue condizioni, ancora non obbligato a giacersene infiacchito in un letto ad attendere il momento in cui sarebbe stato visitato, lui, da una Signora bruttissima tuttavia irresistibile che egli non aveva alcun piacere di incontrare e che invece l’avrebbe condotto con sé… Mi venne da ridere, proprio da ridere, da festeggiare quell’insolito lugubre evento. Io che chiedo sulla mia Morte e il medico che si è già incontrato per una iniziale intima relazione con la sua Morte!