Introduzione di Cristian Arni
Ne parlammo in un precedente Comunicato Stampa giunto dalla Dott.ssa Silvia Costa che ci informava a riguardo; erano i primi di Novembre 2019, oggi finalmente apprendiamo sempre dalla Dott.Cosa, già Eurodeputato, quanto presente nel seguente Comunicato Stampa della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, aggiungiamo la nostra soddisfazione per tale sentenza, una chiara dichiarazione di assunzione di responsabilità da parte dei tre stati membri dell’Unione, che si erano sottratti dai loro adempimenti comunitari. Maggiormente oggi, con questa emergenza sanitaria in corso che ha fatto prendere posizioni discutibili da parte del Presidente Ungherese Orban, il quale ha essenzialmente assunto pieni poteri legislativi, annullando di fatto il ruolo del Parlamento e i principi Democratici che l’Unione Europea difende strettamente.
dalla Dott.ssa Silvia Costa
Corte di giustizia dell’Unione europea
COMUNICATO STAMPA n. 40/20
Lussemburgo, 2 aprile 2020
Sentenza nelle cause riunite C-715/17, C-718/17 e C-719/17
Commissione/Polonia, Ungheria e Repubblica ceca
Rifiutando di conformarsi al meccanismo temporaneo di ricollocazione di
richiedenti protezione internazionale, la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica ceca
sono venute meno agli obblighi ad esse incombenti in forza del diritto dell’Unione
Tali Stati membri non possono invocare né le loro responsabilità in materia di mantenimento
dell’ordine pubblico e di salvaguardia della sicurezza interna né il presunto malfunzionamento del
meccanismo di ricollocazione per sottrarsi all’esecuzione di tale meccanismo
Nella sentenza Commissione/Polonia, Ungheria e Repubblica ceca (Meccanismo temporaneo di ricollocazione di richiedenti protezione internazionale) (C-715/17, C-718/17 e C-719/17), pronunciata il 2 aprile 2020, la Corte ha accolto i ricorsi per inadempimento presentati dalla Commissione contro questi tre Stati membri, diretti a far dichiarare che, non avendo indicato a intervalli regolari, e almeno ogni tre mesi, un numero adeguato di richiedenti protezione internazionale che essi erano in grado di ricollocare rapidamente nel loro rispettivo territorio e non avendo, di conseguenza, ottemperato ai loro ulteriori obblighi di ricollocazione, tali Stati membri erano venuti meno agli obblighi ad essi incombenti in forza del diritto dell’Unione. Da un lato, la Corte ha riscontrato l’esistenza di un inadempimento, da parte dei tre Stati membri interessati, di una decisione che il Consiglio aveva adottato ai fini della ricollocazione, su base obbligatoria, dalla Grecia e dall’Italia, di 120 000 richiedenti protezione internazionale verso gli altri Stati membri dell’Unione 1 . Dall’altro, la Corte ha constatato che la Polonia e la Repubblica ceca erano altresì venute meno agli obblighi ad esse incombenti in forza di una decisione anteriore che il Consiglio aveva adottato ai fini della ricollocazione, su base volontaria, dalla Grecia e dall’Italia, di 40 000 richiedenti protezione internazionale verso gli altri Stati membri dell’Unione 2 . L’Ungheria, invece, non era vincolata dalle misure di ricollocazione previste da quest’ultima decisione.
Nel settembre 2015, tenuto conto della situazione di emergenza dovuta all’arrivo dei cittadini di paesi terzi in Grecia e in Italia, il Consiglio ha adottato le succitate decisioni (in prosieguo: le «decisioni di ricollocazione»). In applicazione di tali decisioni 3 , nel dicembre 2015, la Polonia aveva indicato di essere in grado di ricollocare rapidamente nel suo territorio 100 persone. Essa non aveva tuttavia proceduto a tali ricollocazioni e non aveva assunto nessun successivo impegno di ricollocazione. L’Ungheria, invece, non aveva in alcun momento indicato un numero di persone che essa era in grado di ricollocare nel suo territorio in applicazione della decisione di ricollocazione che la vincolava e non aveva proceduto a nessuna ricollocazione. Infine, nel febbraio e nel maggio 2016, la Repubblica ceca aveva indicato, in applicazione delle decisioni di ricollocazione 4 , un numero di 50 persone che essa era in grado di ricollocare nel suo territorio. Dodici persone erano state effettivamente ricollocate dalla Grecia, ma la Repubblica ceca non aveva più assunto nessun successivo impegno di ricollocazione.
La Corte respinge l’argomento dei tre Stati membri
Nella presente sentenza, la Corte ha anzitutto respinto l’argomento avanzato dai tre Stati membri interessati secondo il quale i ricorsi della Commissione sono irricevibili per via del fatto che, in seguito alla scadenza del periodo di applicazione delle decisioni di ricollocazione, avvenuta, rispettivamente, il 17 e il 26 settembre 2017, essi non hanno più la possibilità di porre rimedio agli inadempimenti dedotti. A tale riguardo, la Corte ha ricordato che un ricorso per inadempimento è ricevibile se la Commissione si limita a chiedere di dichiarare l’esistenza dell’inadempimento dedotto, in particolare in situazioni, come quelle in esame nelle presenti cause, nelle quali l’atto di diritto dell’Unione del quale si deduce la violazione ha definitivamente cessato di essere applicabile dopo la data di scadenza del termine fissato nel parere motivato, vale a dire il 23 agosto 2017. Inoltre, la constatazione di un inadempimento continua ad avere un interesse sostanziale, in particolare come fondamento della responsabilità eventualmente incombente allo Stato membro, in conseguenza del suo inadempimento, nei confronti di altri Stati membri, dell’Unione o di singoli. Nel merito, la Polonia e l’Ungheria sostenevano in particolare di essere legittimate a omettere di applicare le decisioni di ricollocazione in forza dell’articolo 72 TFUE, secondo il quale le disposizioni del Trattato FUE relative allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, nel cui ambito rientra in particolare la politica di asilo, non pregiudicano l’esercizio delle responsabilità che incombono agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna. A tale proposito, la Corte ha ritenuto che, poiché l’articolo 72 TFUE costituisce una disposizione derogatoria alle norme generali di diritto dell’Unione, esso debba essere interpretato restrittivamente. Pertanto, tale articolo non conferisce agli Stati membri il potere di derogare a disposizioni di diritto dell’Unione mediante il mero richiamo agli interessi connessi al mantenimento dell’ordine pubblico e alla salvaguardia della sicurezza interna, ma impone loro di dimostrare la necessità di avvalersi della deroga prevista da detto articolo al fine di esercitare le loro responsabilità in tali materie. In tale contesto, la Corte ha rilevato che, in forza delle decisioni di ricollocazione, occorreva prendere in considerazione la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico per tutta la durata della procedura di ricollocazione, fino al trasferimento effettivo del richiedente protezione internazionale. A tale riguardo, la Corte ha ritenuto che alle autorità competenti degli Stati membri di ricollocazione debba essere riconosciuto un ampio margine di discrezionalità allorché queste stabiliscono se esistano fondati motivi per ritenere che un cittadino di un paese terzo destinato a essere ricollocato costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico nel loro territorio. Su tale punto, la Corte ha indicato che la nozione di «pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico», ai sensi delle decisioni di ricollocazione 5 , deve essere interpretata nel senso che essa comprende le minacce sia attuali sia potenziali alla sicurezza nazionale o all’ordine pubblico. La Corte ha tuttavia precisato che, per invocare i motivi summenzionati, dette autorità dovevano basarsi, al termine di un esame caso per caso, su elementi concordanti, oggettivi e precisi, che consentano di sospettare che il richiedente in questione rappresenti un pericolo attuale o potenziale. Di conseguenza, essa ha dichiarato che il meccanismo previsto da tali disposizioni ostava a che, nell’ambito della procedura di ricollocazione, uno Stato membro invocasse perentoriamente, ai soli fini di prevenzione generale e senza dimostrare un rapporto diretto con un caso individuale, l’articolo 72 TFUE per giustificare una sospensione, o perfino una cessazione, dell’attuazione degli obblighi ad esso incombenti in forza delle decisioni di ricollocazione.
Pronunciandosi poi sul motivo di difesa che la Repubblica ceca trae dal malfunzionamento del meccanismo di ricollocazione in questione, la Corte ha stabilito che, salvo consentire che venga arrecato pregiudizio all’obiettivo di solidarietà inerente alle decisioni di ricollocazione nonché all’obbligatorietà di tali atti, non si può ammettere che uno Stato membro possa basarsi sulla sua valutazione unilaterale dell’asserita mancanza di efficacia, o dell’asserito malfunzionamento del meccanismo di ricollocazione istituito dai medesimi atti, per sottrarsi a qualsiasi obbligo di ricollocazione ad esso incombente in forza di questi stessi atti. Infine, ricordando l’obbligatorietà, sin dalla loro adozione e durante il loro periodo di applicazione, delle decisioni di ricollocazione per la Repubblica ceca, la Corte ha indicato che tale Stato membro era tenuto a conformarsi agli obblighi di ricollocazione imposti dalle medesime decisioni indipendentemente dalla fornitura di altri tipi di aiuti alla Grecia e all’Italia.