La bellezza del testo in tutta la sua interezza; attori bravissimi, scenografia e luci rosse, come il sangue versato dal tiranno; non mancano intuizioni ed effetti a sorpresa.
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di Cristian Arni
La ripresa dello spettacolo di Marco Carniti del Riccardo III, sarà in scena fino al 15 Settembre.al Silvano Toti Globe Theater a Roma.
Carniti ha curato adattamento e regia di uno spettacolo che cresce ogni volta torna in scena, compiendo quasi un “prodigio”, non potrebbe esser altrimenti nella circolarità del Globe, raffigurazione simbolica del globo terrestre.
Dirigere tanti attori oggi giorno, non è solo inusuale ma una vera e propria impresa, per come vanno i tempi, qualcosa di magico, che fa bene al Teatro e al cuore.
Abituati come siamo alle cesoie testuali rischiamo pure di non riconoscere più l’opera nella sua compiutezza: tagli, innesti, “potature”, “incesti” e impianti testuali hanno soppiantato la bellezza filologica letteraria, quasi a farci dimenticare l’origine, il senso e la natura dell’opera shakespeariana.
E cosi Marco Carniti ha il pregio. tra gli altri, di ridare a Shakespeare la sua stessa parola e agli attori la possibilità di usarla in tutta la sua complessità, potenza e bellezza di un’elaborazione testuale senza fronzoli nè particolari omissis.
Questo il primo pregio di questo spettacolo; ritrovarsi di fronte all’integrità dell’opera, eccezion fatta per alcune scelte tecniche operate ai fini della messa in scena per consentire al pubblico di seguire l’intricato vortice di fatti e personaggi inscritti, è un piacere che ci fa riscoprire il testo.
In fondo siamo nella casa, nel “tempio” del Bardo, cosa importa se a Roma a Villa Borghese, per dirla con Shakespeare “tutto il mondo è teatro” e risulta ancora più importante rendere giustizia alla parola di Shakespeare.
Si entra immediatamente nei foschi intrighi di un affabulatore che muove le trame di una corte appena uscita dalla Guerra delle Due Rose; è tempo di pace, una pace instabile e piena di rancori, dove “qualcuno” sa districarsi bene nella semina del proprio odio per giungere al suo scopo.
Nel susseguirsi di vicende e intrecci lo spettatore è inchiodato fino alla fine, occhi fissi sulla scena, a stretto contatto con le scellerate azioni di Riccardo di Gloucester, che “dialoga” ora con sè, ora con il pubblico, trascinandolo dentro l’azione, portandolo a braccetto con sè, in questa malia divertita nella quale il pubblico segue “il deforme, incompiuto” Riccardo, una “simpatica” canaglia, bambinesca e pericolosa nella sua manifestazione.
Che Riccardo cammini nello yard tra gli spettatori o sieda in bilico sul trono sopra il palco, o ancora quando trama i suoi progetti entrando ed uscendo dallo yard, guardando senza vergogna in faccia lo spettatore, lo fa sempre coinvolgendolo in maniera diretta e divertita, come quando nella “scena delle fragole” lancia al pubblico, come fanno le Rock star con plettri e stick del drum set, i frutti del Vescovo di Ely, “sputacchiando” qua e là i semi e i torsoli di quei frutti succulenti e prelibati. E quanto si diverte il pubblico in questi momenti di “dialogo”, richiamo partecipe dentro l’azione.
Magistrale Maurizio Donadoni nei panni del sanguinario Riccardo; tratteggia la figura del cattivo, gobbo e deforme Duca di Gloucester con una performance in bilico tra il grottesco e il gigionesco di un guitto, quale in fondo Riccardo appare, passando tra i diversi piani del personaggio che simula e dissimula sempre se stesso fino al momento in cui, un barlume troppo fioco di coscienza ed umana presenza, nella bella scena dell’incubo che evoca tutte le morti per suo ordine, viene soffocata, non v’è tempo per essa, si affaccia il giorno della battaglia in cui troverà la propria di morte, prima però Riccardo si rià lesto, pronto a fronteggiare i suoi nemici a combatterli sul campo di Bosworth.
Molto evocativo e suggestivo l’impianto scenografico di questa tenda rossa, dove Riccardo cerca ristoro prima della battaglia, con gli attori che rappresentano i suoi fantasmi e si muovono, coreograficamente avviluppati in questo enorme tessuto che mostra le sagome dei corpi quasi fossero realmente eterei e leggeri, scena veramente ben sviluppata.
Per due ore e poco più il pubblico segue attento il dramma, senza sganciarsi mai dall’azione, non ci sarà ombra di distrazione, fuor che l’ombra del Duca di Gloucester che “medita al sole” i propri intrallazzi.
Il primo atto si conclude con la prima parte dei piani di Riccardo pronta ad innescare i suoi effetti nel secondo atto.
Quando si riaccendono i riflettori, la macchina sanguinaria riparte senza posa. Riccardo porta a segno tutti i suoi propositi; con astuzia e inganno, coadiuvato dal suo intendente Duca di Buckingham/Gianluigi Fogacci mette a segno i piani orditi con “profezie, calunnie e sogni d’ubriaco” che affondano suo fratello Clarence, nella malvasia.
Gli attori in scena danno il massimo insieme, rendendo omogeneo il lavoro, non facilissimo, di far seguire le contorte vicende delle casate degli York e dei Lancaster; in questo delicato lavoro sul testo, il linguaggio è stato tradotto e restituito da un’ interpretazione fluida e molto colloquiale, quasi quotidiana e “spiccia”, mantenendo la bellezza delle parole.
Anche la recitazione è resa molto leggera e scaltra nell’interpretazione di Donadoni/Riccardo. A parte qualche piccola ed organica defaillance di tanto in tanto, il testo si segue molto bene; l’atmosfera che si respira sembra di essere a Londra, nell’originale Globe Theater.
Il potere si palesa in tutta la sua bramosia, vacuità, fallacia e iniquità, in tutta la propria debolezza e caducità, sembra quasi una stoccata a questi nostri tempi scellerati.
La scenografia è rossa, come la luce che tinge la scena in un’atmosfera che richiama il colore del sangue; tra flash light e lampi visivi, effetti sonori di tamburi rombanti ed echi medievali che portano l’austerità di un tempo in cerca di un equilibrio politico e anche religioso, si consumano le vicende dei Plantageneti a partire proprio dal Duca di Clarence, passando per Lord Hastings/ Patrizio Cigliano, che fa bene nel suo ruolo a scapito della testa che perderà di lì a poco, per ordine del futuro sovrano.
Il “red carpet” meccanico è una passerella sulla quale troveranno la morte, uno dietro l’altro, tutti coloro che si frapporranno tra Riccardo e i sui obiettivi, una passerella che si getta poco oltre il palcoscenico al di là del quale, il vuoto in cui si infrange il gelido cuore di Riccardo ormai sovrano.
Lo yard viene così popolato, nelle scene a seguire, dai passaggi verticali, simbolo di chi il potere lo ha e sta sopra e chi il potere non detiene ancora e sta sotto; presto questo rapporto alto/basso verrà invertito, ci sarà interscambio di ruoli a suon di spada e delitti.
Ottimo in questo senso il lavoro compiuto dal Maestro d’armi, Renzo Musumeci Greco, che insieme agli attori ci fa assistere a stoccate e duelli, battaglie e colpi di spada come tradizione vuole.
Mentre a corte tutti si affannano, reclamando il diritto a mantener salda la propria posizione, il proprio ruolo, la pace deve essere assicurata da un ulteriore patto al capezzale del malato Re Edoardo/Nicola D’Eramo, che appare in scena su un baldacchino avvolto da drappi rossi; da quel letto Edoardo non si alzerà più.
Il trono vacilla, la corona vaga in uno Stato senza Governo, vi ricorda qualcosa? Forse… chissà, qualche assonanza con i giorni che stiamo vivendo; la corona è “così fuori posto” che dovrà pensarci Richmond, una volta ucciso Riccardo, a posarla sul capo del legittimo erede.
Colori accesi nella scenografia segnata da una porta che si alza ed abbassa automaticamente, a seconda dell’azione, da cui entrano/ escono i personaggi del Duca di Clarence/Tommaso Cardarelli, che tratta il suo personaggio, “povero ingenuo Clarence”, con tutta la pietà del caso; capovolto a testa in giù, rinchiuso nella torre, troverà la morte per mano dei suoi aguzzini.
Bella scena, intensa e ricca di pathos, non facile da gestire fisicamente, così capovolto, girato e rigirato come uno spiedo, infine infilzato tra i rossi, i porpora e scarlatti delle luci di Umile Vainieri, nella polifunzionale scenografia di Fabiana Di Marco.
Il rosso del sangue versato, per salire su un trono troppo vacillante, così al limite del lungo tappeto meccanico macchiato di sangue, viene ripetutamente pulito dai segni degli orribili assassinii compiuti; gesti coreografici, ritmati dai tamburi, spadaccini dimestichi tanto con la spada quanto con il mocho, bisogna pulire in fretta le macchie dei crimini, bisogna andare avanti, orrore chiama orrore.
E quando Riccardo reclama “un cavallo il mio regno per un cavallo!” nella celebre frase di chiusura, il precipizio è a un passo, quello stesso precipizio sul quale sedeva malfermo accoglie il suo ultimo rantolo, il suo ultimo convulso atto che infrange la sua gelida richiesta nello yard da cui fuoriesce un cavallino a dondolo, ma ormai è troppo tardi per scappare.
I costumi di Maria Filippi abbelliscono i personaggi, eleganti, non eccessivamente carichi e pomposi, accattivanti forme che si adattano ai movimenti degli attori senza ingessarli in pose posticce; che siano gesti ieratici o pieni di disperazione non v’è mai leziosaggine vacua; così anche per i rapidi e intrepidi duelli di “scherma” in cui gli attori sono a proprio agio nelle vesti da schermidori.
Brava Antonella Civale/Regina Elisabetta a trattare il suo personaggio con eleganza e dignità, lasciandosi andare al dolore in maniera composta, senza mai cadere nell’esagerazione del dolore, come quando apprende la notizia dell’incoronazione di Anna, un urlo sordo, accusato da un cedimento fisico composto e controllato, segnerà l’inizio della fine, presto però qualcosa cambierà in meglio per la “povera regina dipinta”, come l’appella la Regina Margherita.
Così come intensa e brava è Lady Anna/Federica Bern, nel raffigurare la sposa frastornata, così divisa tra lutto e nozze, incoronazione e caduta fino alla morte, tutto in un baleno; personaggio non facile da rendere, bella la famosa scena a due con Riccardo, convincente.
Come superlativa e magistrale è la scena della Regina Margherita/Melania Giglio, che per tecnica vocale ed espressiva imprime e incide una scena memorabile che dà corpo e voce alle imprecazioni e maledizioni della confinata regina, in una complessa scena a corte, carica di tutto il pathos, rancore e dolore possibili per i torti subiti, bravissima!
Mentre il dramma volge verso il suo epilogo, incontriamo momenti di ulteriore intensità e pathos come nella scena in cui Sir Catesby, un Mauro Santopietro sempre attento e in parte, è pronto a farsi carico dei fardelli che Riccardo gli ordinerà di portare una volta eliminato un ormai troppo circospetto e pensieroso Buckingham; per mano di Riccardo, Sir Catesby sarà incaricato di comunicare la malattia improvvisa, anzi la morte di Lady Anna, seguendo Riccardo fino alla notte prima della battaglia finale.
L’escalation verso il potere è faticosa, fatta di intrighi, anticipati nel monologo iniziale di Riccardo che appare in scena ingabbiato nella sua deformità, trainato da un “servo” tutto fare; incastonato in quella specie di strumento di tortura, Riccardo/Maurizio Donadoni esegue il monologo iniziale, dopo un antefatto che evoca la Guerra delle Due Rose e la successiva, troppo labile pace.
Sarà “Ora” il momento di agire e Riccardo lo sa bene. Bravi tutti e alla fine tanti applausi.